AMORA ALTA – ANTEA

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AMORA ALTA - ANTEA

Testo: Aurora Cantini
Foto: Aurora Cantini

 

CRONACA DI UN SABATO SERA PERCORRENDO I PAESI DI MONTAGNA, DOVE IL MONDO DEL SILENZIO È IL SOLO PROTAGONISTA
Un sabato sera di fine novembre, verso le 20.30 decidiamo di fare un giro in auto fino ad Antea, frazione di San Pellegrino Terme, Valle Brembana, dove è in atto la festa della Madonna della Salute.
Da Amora Alta (1.100 metri), la visibilità è buona, non c’è il nebbione che sale dalla Valle Seriana ad avvolgere l’abitato, il freddo ancora non stringe nella sua morsa, la strada asciutta si presta ad una buona tenuta, e abbiamo voglia di spaziare un po’ su e giù lungo i valichi.

Attraversando Selvino, l’altro paese dell’Altopiano insieme ad Aviatico, salta all’occhio la luminosità dei negozi, un candore quasi bianco in Piazza Europa, poi si scende verso Rigosa, con il bosco cupo che fa da cornice alla strada a tornanti lungo il canalone.
Il torrente Ambriola sussurra alla nostra destra, le foglie morte si accartocciano ai lati della strada che sembra intrufolarsi nell’arco scuro del bosco. Ogni tanto ci abbagliano i fari di qualche auto solitaria, ma per il resto siamo solo noi e il silenzio della vallata.
Mezz’oretta ed ecco il bivio di Algua, giriamo a sinistra e proseguiamo. Il torrente, che ora preden il nome di Ambra, è più denso, rumoreggiante, caricato dalle acque del Serina più a monte. Le Terme della Fonte Bracca sono a regime ridotto, e accanto, dietro il cancello, l’imponente guscio ormai vuoto del Ristorante omonimo appare austero e triste, a lato del vasto cortile ancora addobbato di lampioni decorati a palla, senza più luce, con le orbite chiuse delle sue tante stanze, fredde e morte.
«Chissà quante storie sono passate dietro quei vetri, eh, Oli?» dico io. «Se sbirciassimo ora, troveremmo porte chiuse a chiave, stanze con i letti coperti da lenzuola bianche, corridoi in penombra, lavandini gocciolanti, polvere sulle mensole, quasi un mondo di spiriti oltrepassati.» «Eppure un tempo giocavano i bambini, si riposavano i signori.»
Di lì a poco ci avvince la magia dell’Orrido, quasi fiondandosi verso di noi dal parabrezza: il lungo tunnel di 1-2 chilometri, scavato nella roccia, con la parete vertiginosa a picco sul canyon, impreziosita di arabeschi di luce, è bello da trattenere il fiato.
Sopra di noi la volta seghettata della montagna ci guida quasi occhieggiandoci e noi scivoliamo sotto, come dentro un antro delle Meraviglie. Le stalattiti non hanno ancora fatto la loro comparsa con le loro fredde dita di ghiaccio ma la morbidezza della stagione rende l’Orrido quasi una porta verso Narnia.
Superato il lungo ponte sul Brembo (il nostro Golden Gate), si gira a destra, verso San Pellegrino. Le auto sfrecciano scorrevoli e indaffarate, questa è la direttrice maestra, spina dorsale dell’intera Valle Brembana.
Interminabile, quasi festante, la lunga chimera dell’industria San Pellegrino ci scivola a lato, verso il Brembo. Qui ferve la vita, file e file di camion stanno caricando le casse di bottiglie, mentre sulle pareti esterne degli enormi capannoni svettano, eleganti e modaioli, decorativi manifesti e murales. Tutto luccica, risplende, come la città delle Terme, che noi percorriamo lungo la vecchia provinciale, con la sua lunga passeggiata a belvedere del fiume, i maestosi palazzi liberty impreziositi dalle volute di luce: coppiette mano nella mano a passeggiare o sostare vicino alle balaustre in pietra barocca, ragazzi a frotte in attesa ai crocicchi, le gelaterie ancora con i tavoli in bell’ordine all’aperto, le seggiole bianche come la panna, in attesa di qualcuno che non c’è. Lo scrosciare dell’acqua culla lo sguardo che spazia sull’Epoca Retrò.
Poi, poco prima di San Giovanni Bianco, l’indicazione per Antea, si gira a destra e si sale.
Tornanti stretti, la strada è quasi a precipizio sul fiume, che mano a mano si allontana; i puntini della città baluginano come un Presepe e il nastro del Brembo diventa un sottile ricamo di riflessi nel buio. Non ci sono barriere, né case, solo bosco tortuoso ad aggredire le falde del Monte Zucco. Gli alberi sembrano chinarsi ad intrecciare il percorso dell’uomo, una rete che intrappola le ultime foglie ancora attaccate al ramo.
Auto inesistenti.
Dopo 15 minuti ecco il borgo, il piccolo cimiterino rannicchiato sul tornante, il cartello indica l’altitudine: 1.000 metri. Il paesino è appollaiato come per non venire giù, orti in pendenza, balzelli a secco a fermare il pendio di prato. C’è la festa. Ballo liscio con pianola nella palestra.
Per il rientro decidiamo di proseguire lungo la stretta e impervia strada, per salire a collegarci con la Valle Serina e superare le gobbe fino a riapprodare sull’Altopiano.
Inoltrandoci nel fitto bosco chiuso a riccio, dopo 5 chilometri siamo in territorio di Dossena. Sul lato destro il torrente ha scavato una valle ripida e scoscesa, qua e là alcune case illuminate, ma si deve salire ancora, e ancora, lo spazio per il passaggio è angusto, in giro non c’è nessuno. In alto, quasi a toccare il cielo, danzano le luci del paese, ma sembra interminabile raggiungerlo.
«Mamma mia, certo che anche qui sarà difficile vivere» rifletto. «In estate è bello, le casette seppellite nel verde, ma per andare a scuola, o solo a far la spesa o in posta, qui ci vuole l’auto. Niente bici, è impossibile risalire da qui. Cadrà tanta neve, tu dici?»
«Di sicuro, e ghiaccerà anche. Tutto in pendenza.»
Davanti a noi, ecco un lumino improvviso, quasi si fionda giù un vespino, un ragazzino che va verso il basso inforcando i tornanti con piglio sicuro, ma non spericolato. «Quel ragazzino conosce questa strada come le sue tasche, ma dove andrà secondo te?»
«Farà la nostra strada al contrario, se vuol vedere la vita. Attraverserà Antea e scenderà a San Pellegrino.»
«È lunga.»
«È la sola strada che ha, se vuole vedere qualche amico.»
«Quante storie da raccontare da parte di chi continua vivere quassù. Solo montagne, lo sguardo si ferma contro il profilo delle creste.»
Le casette, con il cancellino e il praticello, appaiono ordinate e silenziose. Oltre le finestre s’intravedono lampadari accesi, mobili di legno, il baluginìo della tv, gente raccolta nel tepore di un sabato sera, mentre fuori è buio e i monti vegliano intorno.
Finalmente, dopo 3 chilometri su, su, ecco Dossena: quasi un terrazzo sulla Valle, quasi pianeggiante. La piazza, la sede degli Alpini illuminata, i giardini. Gruppi di adolescenti e di ragazzine chiacchierano e si muovono appoggiati o seduti sulle balaustre in ferro che delimitano il belvedere: che cosa attenderanno, per andare dove? Dove è qui la festa del sabato? Dove possono divertirsi?
Noi proseguiamo seguendo la strada maestra, l’abitato lascia posto alla foresta, località Corone: è il Passo verso la Valle Serina. Là in fondo c’è il paese, più oltre Frerola. La strada è severa, alte montagne incombono, pareti a strapiombo delimitano la carreggiata aperta, il Monte Castello forma una barriera di buio, poi si arriva al bivio con la strada principale: a sinistra si sale verso Oltre il Colle, Zambla; a destra si va giù verso Serina. Anche qui si attraversa un paese di silenzio, la chiesa illuminata, il parco ancora accessibile, tutto bello acceso, ma sembra che il mondo umano sia evaporato.
È strano percorrere questi tratti in un’atmosfera di impronta aliena, noi, che in estate siamo abituati a incrociare genti, villeggianti, turisti a piedi, in un caleidoscopio di colori, suoni, feste, chiacchiericci, un andirivieni come di formiche.
Altro bivio, svolta a sinistra, per Cornalba. Identico silenzio, anche qui chiese, monumenti, statue di uomini e idee ben illuminati, ma padroni assoluti della serata. Il borgo dei Passoni, dove è nata Elisa Dolci, la mamma di Oli, porta i suoi ricordi carichi di rimpianto: i pascoli sembrano argentati sotto la luce della luna, e le stalle di un tempo assistono al nostro passaggio. Da qui transitavano le mandrie dirette alla fiera zootecnica di Serina, da qui si saliva verso il Monte Alben, che sovrasta maestoso appena un poco oltre i nostri occhi, da qui la Via Mercatorum portava in alta Valle Brembana.
Avanza l’auto in un paesaggio secolare ed immoto, quasi immutato nel suo esistere, ma anche tacito testimone del nostro peregrinare. La minuscola frazioncina della Tagliata ha quasi tutte le finestre accese, segno che i pendolari tornano spesso al paese.
«Non sembra anche a te, che la montagna quasi ci derida, come a dire “noi siamo ancora qui”?»
«Saranno loro che sopravviveranno.»
Le alture sfilano dietro i miei occhi, spettrali ma non cupe, sono come in attesa di un brivido, di un sfrondare dei rami.
Ancora un bivio, quello di Costa Serina, con la sua bianca chiesetta a benedire il passaggio, poi Trafficanti, che si mostra con la sua sempre maestosa mole della chiesa costruita sullo strapiombo del Monte Suchello, l’auto conosce bene ogni curva e prosegue svelta, attenzione! Il pietrisco frana a lato della carreggiata; infine Aviatico, che attraversiamo quasi in punta di piedi. In alto il Rifugio del Monte Poieto, con il suo faro di luce, sembra una bianca stella cometa. La Cornagera, poco dietro, sonnecchia vigile e attenta.
L’ultima biforcazione verso sinistra, e siamo a casa. Il Monte Podona si staglia come ritagliato sul blu della notte. Sotto di noi il pianoro del paese di Ama e Selvino che sorride.
Dal balcone dell’entrata brillano gli occhi mentre rimiro la lontana pianura, le sfavillanti farfalle dei grossi paesi sparsi sul piano, la pista dell’aeroporto di Orio al Serio. Poi alzo gli occhi.
«Non c’è nessun aereo in attesa nei cieli, questa sera l’atterraggio è regolare.»
Nel cielo v’è solo un chiarore di stella, e il cuore si fa triste e commosso come quando si ha la consapevolezza di essere tanto, tanto amati: Lei, la Montagna mi ama quasi da perdermi nel suo abbraccio.

MAPPA ALTOPIANO SELVINO-AVIATICO

 

 

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9

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